LA NOSTRA STORIA

L’Azienda Agricola Castelli nasce nel 2000, anno in cui è stato impiantato il vigneto. Perfettamente inserita nel comprensorio del Lago di Bolsena, un territorio ad elevata vocazione vitivinicola, nel cuore della Tuscia, una terra ricca di storia e tradizione, in una posizione ottimale che risente anche della vicinanza del mare. Qui il vigneto, in armonia con il prezioso ecosistema, ha trovato la sua giusta dimensione dove amore del territorio, cura e rispetto delle leggi della natura, sapientemente unite ad una buona dose di caparbietà, hanno spinto Antonio Castelli, fondatore dell’azienda, a credere e a puntare su un prodotto di particolare pregio e qualità: il Canaiolo nero, una vite che sembra essere stata portata nella zona del lago di Bolsena da uno dei monaci-coloni durante il medioevo.

 

L’azienda, fondata da Antonio e ora gestita dalla figlia Debora è nata, dunque, dalla volontà di valorizzare e far conoscere le qualità del vitigno autoctono, il Canaiolo nero, in quanto patrimonio da conservare e promuovere, in un più ampio discorso di riqualificazione, recupero e valorizzazione del territorio e di questo prezioso vitigno.

 

“Nessuno ci ha insegnato a fare il vino ma, attraverso tentativi, sbagli, confronti e studi, usando la giusta dose di buon senso unita alla curiosità e alla voglia di imparare, abbiamo sperimentato fino a creare un vino che prima di tutto piaceva a noi”

 

Un prodotto di qualità, alla base del quale c’è la filosofia aziendale: fare una “buona agricoltura”, intelligente e rispettosa dell’ambiente in generale e della vite in particolare, la cui coltivazione e la cui lavorazione è stata tramandata di padre in figlio, di generazione in generazione secondo la maniera più semplice e genuina, in una sana e rispettosa convivenza con l’ambiente. Oggi Debora porta avanti il lavoro del padre, con la stessa passione e tenacia, vantando una produzione non di quantità ma di qualità, che ha fatto del rispetto della vite e del suo ciclo naturale la propria regola d’oro, scegliendo di utilizzare solo concimi organici naturali, in equilibrio con la natura, abbandonando, se non in condizioni climatiche particolari, le lavorazioni del terreno, intervenendo solamente quando la pianta ne ha bisogno. Da qui la scelta dell’inerbimento spontaneo e la raccolta dei grappoli senza l’uso di macchinari. Anche in cantina, nella fase di produzione, è ridotto al minimo l’uso dei solfiti e Debora controlla scrupolosamente l’intero processo produttivo, “accompagnando” le sue uve dal vigneto alla bottiglia.

LA STORIA DEL MARTINO IV

Simon de Brion, eletto Papa nel 1281 col nome di Martino IV, finì nel Purgatorio come testimonia Dante Alighieri nella Divina Commedia, per peccati di gola, condannato alla pena di purgarsi per digiuno dalle anguille di Bolsena e dalla vernaccia. Il Papa, di origine francese, elesse come sua residenza preferita Montefiascone, cittadina che proprio il lago di Bolsena domina dall’alto e quindi con vernaccia e anguille a portata di mano. Il sommo prelato ne mangiava, in effetti, in quantità industriale, tanto da morire per grassezza e indigestione del saporito pesce di lago, come scrissero storici pontifici nel 1300. Cinque secoli più tardi lo scrittore Niccolò Tommaseo citò un epitaffio che sembra fosse riportato sulla tomba di questo Papa: gioiscono le anguille perché giace qui morto colui che, quasi fossero colpevoli di morte, le scorticava.

 

Una leggenda che ancora resiste al tempo nelle campagne intorno allo “specchio” di Bolsena dice che colpevoli, i primi a indurre il Papa al peccato, mortale in tutti i sensi, furono alcuni pescatori e contadini di Marta, località sulle sponde a sud del lago. Questi “villici” gli fecero assaggiare dei lunghi e affusolati pesci catturati alla “Cannara”, una strettoia del fiume Marta, dove le anguille venivano pescate dopo averle costrette a passare in una strozzature tra le canne. Il Papa all’inizio si mostrò restio, perché quegli “esseri” assomigliavano ai serpenti, che all’epoca erano simbolo di peccato. Ma vedendo con quanto appetito ed energia i contadini ci davano dentro per far fuori quei pesci peccatori, cotti lì per lì alla brace, conditi con un filo d’olio e una foglia d’alloro e accompagnati con robuste sorsate di “leggiadro” vino rosso locale, finì per cadere in tentazione. Quel vino contadino definito vernaccia dagli astemi storici dell’epoca (quando si usava dare il nome del vitigno locale più diffuso a qualsiasi tipologia di vino della stessa zona) era in realtà un rosso fatto con uve canaiolo: manco a farlo apposta, Cannaiola.

Oggi il nome del Papa viene omaggiato nella denominazione della “Cannaiola di Marta”, Colli Etruschi Viterbesi DOC, che Antonio Castelli, fondatore dell’azienda e pioniere della Cannaiola, coadiuvato dalla figlia Debora Castelli, ha ripreso a produrre ripiantando il vitigno in una zona particolarmente adatta chiamata Rosicasasso, che a sua volta ha conglobato nel nome il vigneto stesso.

L’uva dunque ha radici antichissime e per questo rimane vaga l’origine del nome. Alcuni, rifacendosi a scritti millenari, riferiscono che le uve mature di canaiuola erano gradite persino ai cani. Altri fanno riferimento ai dies caniculares, i giorni più caldi riservati all’invaiatura, cioè al cambio di colore degli acini. Probabilmente merita più credito chi sostiene la derivazione dal fatto che le vigne erano tenute dritte dalle canne, molto abbondanti in terra lacustre.

Vista la quantità di tempo trascorso, rimane misteriosa anche la zona d’origine del vitigno. Si dice, col solito beneficio del dubbio, che fu portato nella zona di Bolsena da uno dei monaci-coloni che nel Medioevo, anche dal centro Europa, calavano spesso nel Lazio tra Roma e la vicina Viterbo, per decenni anche sede papale.